di Giuseppe Scarica
Chi non conosce il Caciocavallo, credo tutti prima o poi abbiamo “avuto a che fare” con questo prodotto della nostra terra, a tavola accompagnato da un vinello rosso, in qualche scampagnata dove non si fa in tempo ad affettarlo che gli amici già ne reclamano un’altra fetta, negli agriturismi delle terre Irpine dove negli ultimi anni il caciocavallo è divenuto un must nei taglieri della tradizione. La tesi più accreditata sull’origine della denominazione del “caciocavallo” la fa derivare dalla consuetudine di appendere le forme di formaggio, in coppie a cavallo di pertiche di legno, sarà un segno del destino….
Il caciocavallo viene ricavato solamente da vacche podoliche una tipica razza dell’Appennino Meridionale, libere vagano tra i prati dell’entroterra campano, senza costrizioni, munte alla maniera tradizionale. Un avanzato grado di stagionatura gli conferisce tutt’una serie di qualità organolettiche: profumi complessi, di pascolo e di macchia nonché una persistenza gustativa inimitabile.
Fin qui abbiamo disquisito di questo nobile formaggio dalle radici campane, nozioni ferme, che però perdono la loro rigidità e le loro certezze quando il caciocavallo viene “letteralmente” impiccato. Avviene sempre più spesso negli ultimi anni, basta capitare in qualche sagra dell’alta Irpinia, mi viene in mente quella della Castagna di Montella. Qualcuno potrebbe pensare a qualcosa di trucido, di cattivo gusto. Invece no, ciò che ci appare agli occhi è un trionfo della cucina “povera” contadina, in un misto di fuoco e fiamme ecco la forma del caciocavallo arrotondata, sospesa tra cielo e brace, retta da un fil di ferro o in alcuni casi da una catena, per rendere ancor di più l’idea del “sacrifico” caseario che stiamo per pregustare.
Il formaggio resta li, ciondolando a destra e sinistra, il calore della brace fa il resto sciogliendo la dura pelle in una crema morbida, pian piano inizia a gocciolare sulla brace ardente è in questo momento che interviene il suo “boia” , il contadino, l’esecutore della poesia del palato, con una lama ben affilata recide la parte morbida del caciocavallo che mestamente si va ad adagiare su una fetta di pane che attendeva calda dopo essersi “abbruscata” al caldo del braciere. Ce la passa in silenzio, quasi a dirci con gli occhi “toh, guarda che ti faccio mangiare” ed ha ragione, la nostra espressione stupita nell’assaggiare questa prelibatezza non lo turba più di tanto, ne vede tante durante queste sagre di paese, la sua mano ferma è tornata a fare il suo compito, per regalare un’emozione nuova ad un altro palato.
Accompagniamo il tripudio con un vino rosso dell’irpinia, un Taurasi và più che bene.
La nostra pancia è lieta ed anche il nostro spirito, vi consigliamo di spostarvi in Irpinia ad assaggiare questa autentica prelibatezza tutta nostrana.