Fonte: Terre del lupo di Vincenzo Garofalo
Le occasioni per visitare le Grotte del Caliendo sono davvero poche, e noi abbiamo avuto la fortuna di riuscirci. In una mattinata fredda e nebbiosa di ottobre, grazie a un’escursione organizzata dal gruppo speleologico di Bagnoli Irpino, il Giovanni Rama, c’è stata l’opportunità di entrare nel sottosuolo irpino.
L’escursione ha avuto inizio di buon mattino, incontrandosi sull’altopiano. Riunitosi il gruppo, con le guide e altri compagni d’avventura si è pianificato l’itinerario. Dal lago, per giungere fino all’ingresso delle grotte, stando alla segnaletica CAI ci si impiegano oltre due ore, per questo, volendo dedicare maggior tempo all’esplorazione speleologica, abbiamo percorso un tratto su asfalto con l’auto. All’imbocco del sentiero che ci avrebbe condotti fino alle grotte siamo stati muniti del caschetto protettivo, provvisto di torcia sulla parte frontale e abbiamo ricevuto alcune semplici istruzioni per evitare di farci male e creare disagi all’intero gruppo escursionistico. Ci siamo, così, incamminati. La passeggiata, per il primo tratto, si è protratta tranquillamente su di un classico sentiero semiasfaltato (nel classico stile che abbiamo già incontrato su altri monti del Parco dei Monti Picentini), tappezzato da foglie colorate d’autunno.
Non c’è voluto molto, ed abbiamo raggiunto il punto di sosta: bisognava abbandonare il sentiero più largo per affrontare un’ascesa lungo la montagna, ma su un nuovo percorso, più stretto, più ripido e mal tenuto. Questo secondo tratto ci ha portati a scoprire scorci panoramici piuttosto interessanti, ma l’incuria nella pulizia da sterpaglie e tronchi cadenti del sentiero non ci ha consentito di apprezzare pienamente la bellezza del luogo. In più, fatto che ha lasciato un po’ di sconcerto in tutti gli escursionisti, è stata l’abbondanza di rifiuti d’epoca che addobbano alberi e rocce lungo la strada che stavamo percorrendo. Il luogo, infatti, fin negli anni ’70 era utilizzato come discarica abusiva da molti: si possono rivenire portaombrelli, lavatrici, paraurti e imbottiture di sedili d’auto, lattine e bottiglie di diverse annate, e l’elenco potrebbe a lungo continuare. Non sono però mancati incontri con pattume d’epoca attuale, che porta a chiedersi perché mai la gente debba raggiungere questi angoli selvaggi di montagna per disfarsi dell’immondizia.
Man mano che il sentiero conduceva verso il basso, per fortuna, l’immondizia andava diradandosi lasciando spazio a bellissimi fiori e ai funghi. Grandi e belle erano, infatti, le “mazze di tamburo” che crescono nel silenzio di questi boschi.
Ci abbiamo impiegato, stimando il tempo, poco più di un’ora per raggiungere il tratto finale: il sentiero è diventato più stretto, e le guide ci hanno intimato l’alt. Bisognava fermarsi mentre veniva organizzato l’ingresso alle grotte. Esse, bisogna dirlo, non sono aperte al pubblico. Un cancello si pone da barriera tra l’escursionista avventato e un angolo d’Irpinia affascinante, ma pericoloso da visitare senza la presenza di chi, invece, conosce ogni angolo del luogo e sa come affrontare una visita speleologica. Ci è stato detto che più volte è stato violato il divieto, il cancello forzato e diverse persone sono entrate in quest’ambiente unico senza autorizzazione, senza guida e correndo il rischio di violare la propria incolumità e quella del luogo!
Indossati i caschi, in piccoli gruppi, ci siamo avviati alla discesa lungo scalette metalliche e pareti rocciose fino a riunirci nuovamente tutti nel piccolo atrio all’ingresso della spelonca.
Un geologo del gruppo Speleo G. Rama ci ha introdotti alla scoperta delle grotte e con la dovuta calma abbiamo potuto addentrarci all’avventura. Con una distanza di un paio di metri tra un escursionista e l’altro abbiamo, lentamente, iniziato la passeggiata d’ingresso. Abbiamo detto addio alla luce, al verde della rigogliosa vegetazione, al colore azzurro del cielo, e abbiamo fatto un “salto” verso l’oscurità, il colore grigio delle rocce, il profumo di pietra, i rumori della grotta.
La discesa lungo il tratto iniziale delle Grotte del Caliendo non è cosa semplice: il fondo è piuttosto scivoloso, ripido e bisogna prestare attenzione a dove si mettono i piedi per non rischiare di scivolare e far male a chi ci precede o a chi ci segue (a volte, camminando, alcune pietre possono staccarsi e cadere). Dopo le prime incertezze, eccone altre. I gradini interni, dove già la luce ha detto addio all’avventuriero, sono rovinati, umidi (è fenomeno tipico di questa grotta il percolare dell’acqua) e richiedono occhi aperti e spirito vigile. Il caschetto con la sua luce accesa aveva il suo fascino: come antichi minatori, tutti in fila, pronti a calarsi nel cuore della terra. Nuove scale in metallo, stavolta piuttosto rivinte dall’umidità, dalla ruggine e dal tempo hanno rallentato il cammino, ma con la dovuta calma abbiamo finalmente toccato il fondo della grotta, lì dove un tempo era possibile trovare abbondate acqua. Ci siamo nuovamente riuniti, fatto il punto della situazione e diretti alla prima apertura della caverna: la luce è tornata a salutarci. Da questa bocca, nel fianco della montagna, risalirono i primi speleologi. Il panorama è affascinante, l’aria fresca, la grotta cupa ci attendeva alle nostra spalle. Ci è stata raccontata un po’ di storia, abbiamo fatto alcune foto di gruppo, e abbiamo ripreso il cammino. La cosa che più ha attirato la mia attenzione, in quel punto illuminato, era il vecchio misuratore del livello dell’acqua, ormai in pensione, arrugginito e corroso al tempo. Ci siamo, quindi, inoltrati nel nero.
L’oscurità, così intensa, profonda, quasi densa, ci ha avvolti. Sotto i piedi il terriccio molle, umido, si affianca al duro e scivoloso guscio della roccia. Alcune concrezioni calcaree appaiono al soffitto, altre alle pareti, altre ancora al pavimento. Nessuna di particolari dimensioni, ma tutte con un loro particolare disegno.
D’agosto, ci hanno detto, questa stanza, o sala, (così viene chiamato ogni atrio della grotta) è piena d’acqua, come a formarsi una piscina. Ad ottobre, e agli inizi di novembre, però, si ha il periodo di secca.
Abbiamo potuto osservare le sedimentazioni calcaree alle pareti, dalla forma di mensole, formate nel tempo dal rimbalzare delle goccioline cariche di sedimenti dopo il contatto con la roccia. Vere e proprie stalagmiti, qui, non ve ne erano… ci avrebbero atteso nella sala successiva. Mentre si rimaneva affascinati da questo strano posto, le guide hanno prontamente montato le corde per raggiungere un angolo diverso della caverna: la sala della colonna.
La risalita, fino alla sala suddetta, non è facile se non si hanno gambe da stambecco e conoscenza assoluta di ogni singolo centimetro del posto. E’ in questo secondo spazio in cui abbiamo sostato che, con stupore, ci siamo imbattuti in una stalattite ed una stalagmite di dimensioni considerevoli. L’una e l’altra, speculari, hanno quasi raggiunto un punto di contatto (e da qui, come abbiamo potuto capire, il nome della sala: la colonna è proprio questo gioco d’unioni tra le due concrezioni). altre, in diversi punti sono le formazioni in corso d’opera, e sono chiaramente visibili i punti in cui le goccioline cariche di calcare depositano con instancabile inerzia i loro micro-sedimenti. Qualcuno, forse in preda a una crisi mistica, ha voluto vedere in una piccola stalagmite un’immagine votiva.
Inutile sottolineare l’importanza di non toccare le superfici calcaree: il sudore, il grasso della pelle, creano una patina che, seppure invisibile, modifica sostanzialmente il depositare delle gocce d’acqua; esse scivolano sul grasso e non lasciano in alcun modo sedimenti, finendo con l’ostacolare la formazione delle concrezioni. Anche la temperatura corporea è pericolosa per questi angoli bui, piccoli ecosistemi a se stanti, dove le temperature restano costanti per tutto l’anno. L’aumento delle stesse, infatti, porta allo scioglimento delle formazioni calcaree e alla distruzione di questo piccolo e unico ecosistema.
Abbiamo potuto, poi, raggiungere un’altra stanza, più in alto, sempre grazie all’ausilio di corde e consigli delle guide: la sala della vipera. Non deve far paura il nome, di vipere, in questo antro buio non ve ne sono, ed il nome trova origine ancora una volta in alcune formazioni rocciose. Guardando verso l’alto, con sorpresa, appaiono stalattiti che si intrecciano tra di loro, creando strane figure e la più grande di queste assume forma di serpente. Qui, purtroppo, si interrompe il cammino: un precipizio si apre proprio avanti a noi (è stata montata una balaustra in ferro, ma è sempre meglio non appoggiarsi, soprattutto se in tanti). Abbiamo deciso di spegnere i faretti sui caschi, sederci, in silenzio, e ascoltare la voce della grotta.
Le piccole gocce, cadendo a ritmo diverso, da altezze diverse e su fondi diversi, cantano in modo unico, un coro di suoni delicati che crea atmosfere suggestive. Ogni tanto il soffio del vento, né caldo, né freddo… solo un soffio. E poi il vociare dei pipistrelli, i veri padroni di casa. Un mondo diverso da quello che siamo abituati a vivere: suoni e rumori diversi, profumi diversi, aria diversa. Un angolo più unico che raro.
La grotta si estende ancora a lungo, si stima una lunghezza bel oltre i 3 km, probabilmente anche oltre i 5 km qualora alcune ipotesi venissero verificate: in epoche arcaiche, prima delle modifiche apportate dalle diverse scosse telluriche che nei secoli e nei millenni hanno modificato il sottosuolo, essa era lunga ben oltre gli attuali confini, ma ancora oggi si pensa che la grotta possa continuare ben oltre Ponte Scaffa, verso Calabritto e Caposele. Le indagini speleologiche sono ancora in corso.
Una cosa curiosa sono degli strani fori al soffitto su cui, devo ammettere, mi è finito più volte lo sguardo: sono le marmitte del gigante. Tali fori, come ci ha spiegato il geologo, nascono nel tempo. Quando l’acqua scorreva a quelle altezze, prima di erodere la roccia fino ai livelli su cui possiamo poggiare i piedi, si creavano vortici nelle anse del fiume sotterraneo e il vorticare del liquido, coi suoi sedimenti, ha creato fenomeni erosivi meccanici e chimici che hanno disegnato e scavato nella roccia quei solchi così caratteristici di forma circolare.
Infine, essendo volato il tempo (l’escursione ha avuto inizio alle 9:30 del mattino, e termine alle 14:30 circa) abbiamo optato per ripercorrere la strada in direzione inversa. Pian piano siamo riemersi e lentamente abbiamo potuto ripercorrere i passi fatti fino a ritrovarci nuovamente al punto di partenza, per salutarci e serbare i ricordi questa giornata nel cassetto delle emozioni.
APPROFONDIMENTO STORICO – La scoperta
Le Grotte del Caliendo sono una delle realtà speleologiche più importanti della Campania, anche se con molta probabilità poco note al pubblico. Le prime esplorazioni iniziarono nel 1932 e continuano tutt’oggi. Le grotte, un tempo ricche d’acqua, oggi assumono sempre più un aspetto fossile (il che vuol dire che l’acqua non è parte attiva della vita della grotta), si aprono in diversi corridoi e diverse stanze.
Proviamo però a fare un po’ di storia.
Fino al 1930 era stato pressoché impossibile esplorare la grotta di cui raccontiamo, ma in quegli anni un muratore di Bagnoli Irpino, Giovanni Rama, riuscì a tracciare un sentiero lungo le pareti del monte, con l’ausilio di corde e chiodi da scalata. Iniziò così la prima fase esplorativa, e il suddetto Rama raggiunse nel 1934 il cosiddetto “I Sifone”. A rallentare le esplorazioni concorsero sia i limitati mezzi tecnici del tempo, sia la copiosità d’acqua che si poteva incontrare nella grotta, riducendo i tempi utili ai soli mesi di settembre ed ottobre. Sempre nel 1934 Rama invitò alla visita della grotta A. Bauco del centro alpinistico, di Napoli. L’anno successivo fu denunciata l’esistenza della grotta all’Istituto Italiano di Speleologia di Postumia. In analogo periodo Rama, continuando le sue esplorazioni, raggiunse il “IV Sifone” dopo aver percorso circa 1600 metri.
Nel 1942 altri si accinsero ad esplorare la grotta: G. Stegagno e A. Segre intrapresero i primi studi geo-paleontologici e rinveniranno all’ingresso della grotta alcune ossa calcificate di sus (genere che da il nome alla famiglia dei suidi) e cervidi.
Solo nel 1964 si ebbe il primo rilievo dettagliato del tratto esplorato, di poco superiore ai 1600 metri. Altre furono, in tempi successivi, le escursioni e le esplorazioni che portarono alla scoperta di altri sifoni.
Col sisma del 1980 si ebbe però un cambiamento rilevante: la sorgente Tronola fu negativamente colpita, e si ebbe un ridursi del flusso di emissione. Il lago regredì e quindi anche la grotta subì un sostanziale svuotamento. Nell’anno successivo ripresero le esplorazioni.
Fu proprio nel 1981 che a Bagnoli, dall’entusiasmo dei giovani interessati all’attività di scoperta, nacque il Circolo Speleologico Giovanni Rama. Il 17 maggio del 1981, alcuni membri del GS CAI Napoli e i subacquei del Centri Immersioni Sorrento penetrarono il “I Sifone” (a 510 metri dall’ingresso) e raggiunsero il “II Sifone”. A. Chieffo e T. Chieffo, P. Di Capua, S. Di Giovanni, A. Nicastro e A. Nicastro e G. Pallante del circolo bagnolese, insieme a F. Bellucci, G. Capasso, G. Giannini, I. Giulivo, C. Piciocchi, A. Santo e M. Tescione del gruppo napoletano raggiunsero, con le loro esplorazioni, quota 2906 metri percorsi nella grotta (con un dislivello di circa 171 m.). Fu raggiunto, così, per la prima volta il principale inghiottitoio del Lago Laceno presso Ponte Scaffa. Ci fu, allora, anche l’interessamento dell’Università di Napoli per lo studio del fenomeno carsico dell’Irpinia.
Continuarono le esplorazioni alla ricerca di ulteriori diramazioni, e nel 1990 fu scoperto un nuovo ramo fossile a circa 13 metri all’interno della grotta, con una lunghezza di circa 807 metri.