Raffaele Lenzi nacque a Bagnoli Irpino nel 1911, laureatosi in giurisprudenza nel 1936 ed in filosofia nel 1939 fu professore e preside di vari licei irpini. Particolarmente legato al suo paese natio curò sulla rivista “Nostro tempo” varie pubblicazioni tra le quali ricordiamo: “L’arte del legno a Bagnoli nel secolo XVII”, “Il castello dei Cavaniglia”, “Le origini del convento di San Domenico” e “Un quadro del Marco Pino da Siena a Bagnoli Irpino”. Tra i suoi tanti scritti troneggia la monografia sul D’Asti pubblicata dal comune di Bagnoli Irpino dopo la sua scomparsa nel 1972. Si ringrazia la dott.sa Elvira Lenzi per aver fornito il documento storico.
Un quadro di Marco Pino da Siena a Bagnoli Irpino
Raffaele Lenzi
Dalla piazza di Bagnoli Irpino intitolata a Leonardo Di Capua muove una strada interna e stretta, denominata Via d’Aulisio; chiusa dapprima da due ali di vecchie costruzioni, essa si slarga, alla fine, in un piccolo spazio chiamato «Largo S. Domenico», dove sorge, maestosa nella sua mole di travertino, una chiesa con annesso convento, le cui origini risalgono presso a poco al 1485. In quell’anno la Contessa Giulia Caracciolo, vedova di Garzia Cavaniglia morto al fianco delle milizie napoletane in guerra contro i Fiorentini, e la Contessa Margherita Orsini, vedova di Diego Cavaniglia morto in combattimento contro i Turchi nella battaglia di Otranto nel 1581, per devozione e per pietà verso i defunti mariti, presero l’iniziativa della costruzione del tempio. Le due contasse dotarono di beni l’erigendo tempio con l’annesso convento che i frati avrebbero dovuto abitare. • Esse, di origine spagnuola e vissute nell’ambiente spagnuolo, prescelsero l’Ordine domenicano che fu istituito da S. Domenico di Guzman, anche egli nativo della Spagna. Intanto le agitate vicende del Regno di Napoli e la seconda Congiura dei Baroni, ordita contro Ferdinando I d’Aragona nel 1485, richiamarono a Napoli le due benefattrici. Fortunatamente all’iniziativa di quelle due pie donne si aggiunse, poi, il concorso del popolo: nel 1488 l’edificio era stato già terminato e, accanto alla chiesa denominata inizialmente S. Maria di Loreto, ora si poteva anche ammirare un piccolo convento. Quest’ultimo, dal 1490, sotto il governo feudale di Troiano Cavaniglia figlio di Diego e di Margherita Orsini, fu abitato dai Domenicani dopo che il generale Bartolo Comatto di Bologna nell’anno 1485, con una sua Bolla ne aveva autorizzata la costruzione: « Prater Bartolus Comattus bononiensis, sacrae Thelogiae profexor, ac totius Ordinis Predicato-rum humilis Magister et Servus-Devotis et Christi Iesu Dilectis • Qua re pro parte dictorum devo-torum earum universitatum tum fuit nobis hu-militer ac devotum supplicatum, ut omnibus Christi fidelibus utriusque sexus pie in Christo vivere cupientlbus tatti ex terris dictae Nuscanae Dioecesis, quam undecumque adducentibus Con-fratemitatis dictae Ecclesiae Sanctae Marine de Loreto Omiumque Sanctorum in ditta terra Balneoli costruendo in fratribus praesentibus et fu-turis…. ad dicendurn salterium au rosarium Bea-tissimae ac gloriosissimae genetricis Domini nostri perpetuae… etc. Datum Nespoli die XXVII mensi Martiis MCCCCLXXXV – Assumptionis mese, Anno primo.
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Incominciò cosi a funzionare il Convento di S. Maria di Loreto dei padri Domenicani e, siccome nella Bolla del 1485 era stata autorizzata la costituzione della Confraternita del Rosario alla quale poi si iscrissero molti cittadini, nella stessa chiesa fu eretto un altare a devozione del SS. Rosario e dedicato a Maria Santissima. I padri domenicani, dunque, introdussero a Bagnoli Irpino per primi il culto della Madonna del Rosario, cosi come in seguito ne furono i ferventi propagatori in tutto il mondo cattolico. L’istituzione del Rosario trae le sue origini da una serie di pratiche religiose, che nel passato consistevano nel salutare Maria con la recitazione di 50 o 150 Ave Maria; di queste pratiche San Domenico fu il propagatore. L’attuale Rosario, che si recita, trae la sua origine storica dal Beato Alano de la Roche (1428-14751 che costituì nel 1470 alcune confraternite del Salterio, divenute poi confraternite del Rosario; e si deve a lui ed a Giacomo Spencer se, nel secolo XV, la festa del Rosario venne portata a grande splendore. Nonostante ciò Mano de la Roche, che per il passato era stato considerato l’inventore di questa devozione, oggi è riconosciuto dalla critica più recente come il rinnovatore. Vi sono, infatti, varie interpretazioni che attribuiscono l’origine del Rosario, a S. Benedetto, al Venerabile Beda, a Pietro l’Eremita. Le Confraternite del Salterio, divenute confraternite del Rosario, assicurarono ai Domenicani, come in seguito si dirà, la privativa della devozione del Rosario che concorse ad aumentare il prestigio dei Padri Predicatori, i quali, in lotta con altri ordini religiosi, avocarono a se stessi definitivamente tale culto per opera di Ambrogio Salvio, nativo di Bagnoli Irpino, generale dei Domenicani. Infatti Pio V (1501 – 1572), domenicano, grande devoto della Madonna del Rosario, con la collaborazione di Padre Ambrogio Salvio, pose fine alla lotta tra i vari ordini religiosi che rivendicavano l’istituzione e la propagazione del Rosario e, nel 1509, diede una Bolla che vietava a tutti gli ordini religiosi di erigere cappelle e confraternite per il Santo Rosario, lasciando questa facoltà al (testo mancante)
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ciale concessione, al Padre Ambrogio Salvio che aveva provocato il provvedimento. I Napoletani ebbero questo padre in grande onore anche per altri meriti e, nella Chiesa dello Spirito Santo ( in Via Roma ), fatta costruire per sua iniziativa mentre era a Napoli provinciale del suo Ordine, gli eressero una statua sotto la quale si legge la seguente iscrizione: D.O.M. – Magister Ambrosio Salvio – Balneolen-sis Ord. praed. Vic. Gen. – Neritonienshun Epi-scopo – Dottrina pietate claro – Pio V, Carolo V, concionibus grato – quod tempi consilio operaq. auspicat. est – Praefecti statuam erigend. descre-verunt – Anno MDCXIII. Ambrogio Salvio, tra il 1535 ed il 1542, ampliò in Bagnoli la chiesa di Santa Maria di Loreto ed ingrandì il convento facendo costruire il massiccio campanile in pietra bianca, caratteristica della architettura domenicana, che denunzia lo stile primitivo della costruzione, la quale, come attestano frammenti di capitelli, di cornici e di colonne, doveva essere di stile archi – acuto romanico. In questo periodo la primitiva denominazione dell’insieme dei fabbricati di Santa Maria Loreto fu mutata definitivamente in quella di S. Domenico.
Verso la fine del secolo XVI gli Stati cristiani, auspice Pio V, riportarono contro i Turchi la famosa vittoria di Lepanto il 7 ottobre 1751, giorno nel quale la Chiesa celebrava in quell’anno la festa del Rosario, che poi fu consacrata solennità religiosa dal Papa Clemente XII. Per intendere la portata di tale avvenimento è necessario risalire alle condizioni dell’Impero Ottomano all’inizio dell’età moderna. Nel secolo XVI il Sultano Selim II (1566 – 74 ) condusse i Turchi contro Venezia, invase Cipro, prese Nicosia che le guarnigioni di Venezia difesero eroicamente fino all’ultimo sangue; cinse di assedio Famagosta. Di fronte a questa ripresa vigorosa della minaccia turca che aveva visto falli-re le varie leghe cristiane, rose all’interno dalle rivalità e dalle discordie esistenti tra gli Asburgo e Venezia, Pio V si fece promotore di una lega alla quale parteciparono la Spagna, la Toscana, il Duca di Savoia. Le forze di questa lega non arrivarono a por (testo mancante)
sedio, dovette capitolare. Il suo eroico difensore Marcantonio Bragadino, che, con soli 8.000 uomini, aveva tenuto testa allo esercito turco infliggendogli una perdita di circa 75mila combattenti, fu preso prigioniero e, nonostante i patti, per la sua ostinata resistenza, fu scorticato vivo! Pio V, caduto il baluardo di Venezia, di fronte ai progressi turchi, seriamente preoccupato della minaccia che incombeva sulla Cristianità, rivolse un appello più pressante alle potenze cattoliche occidentali e formò una grande lega cristiana • della quale fecero parte, oltre Venezia ed il Papa, la Spagna, l’Impero, il Duca di Savoia, Genova, il Granduca di Toscana, i cavalieri di Malta e quelli di Santo Stefano. La flotta della lega era costituita da circa 250 navi e da 80.000 combattenti. Il comando supremo fu dato a Don Giovanni d’Austria, fratello di Filippo II e figlio di Carlo V. I Turchi disponevano di circa altrettante forze di terra e di mare. La flotta concentrata a Messina, mosse contro quella turca comandata dal Kapudan Pascià Muessin Sade Ali. La battaglia ebbe luogo il 7 ottobre 1571 all’ingresso del golfo di Lepanto (nello stretto che divide il golfo di Corinto e quello di Patrasso) presso le isole Curzolari. Ci fu una tremenda mischia durata sei ore; infine la flotta cristiana ebbe ragione della avversaria soprattutto per il merito del due comandanti Veneziani, Agostino Barbarigo e Sebastiano Veniero, e di Marcantonio Colonna che era a capo della flotta del Papato. La flotta turca fu in buona parte distrutta o catturata; il resto fu dispersa. Dalla parte dei Turchi perirono circa 20.000 combattenti. Furono liberati 12.000 rematori cristiani che erano stati catturati dai Turchi in precedenti azioni di guerra condotte contro gli Stati rivieraschi cristiani del Mediterraneo. La vittoria della Cristianità a Lepanto segna l’inizio della decadenza turca e libera per sempre le popolazioni cristiane dall’incubo degli assalti e delle razzie turche che non risparmiavano isole, porti, vascelli dal traffico dei popoli cristiani; pone fine alla cattura frequente di numerose navi e di numerosi infelici di ambo i sessi, di qualsiasi condizione sociale, che poi venivano venduti schiavi nei porti d’Africa oppure venivano trattenuti per gli eserciti dei vari capi turchi al servizio del Sultano.
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Cervantes, che a Lepanto perdette il braccio sinistro, dice nel Don Chisciotte che la battaglia di Lepanto « spettò l’orgoglio degli Ottomani e disingannò il mondo che la flotta ottomana stimava invincibile ». In arte la battaglia di Lepanto fu ricostruita in una interpretazione di Paolo Veronese, che si conserva nell’Accademia delle Belle Arti di Venezia. Per tale vittoria della Cristianità, dovuta secondo la fede dei cattolici all’intercessione della Madonna, anche in Bagnoli, come negli altri paesi cattolici, aumentò il culto della Madonna del Rosario. E fu in tale circostanza che Ambrogio Salvio volle abbellire il nuovo altare della Cappella del Rosario, mettendo a profitto le cospicue offerte dei cittadini, con un magnifico e grande quadro che illustrasse il Rosario. Il visitatore, entrando dalla parte centrale della Chiesa, volga i passi verso l’altare maggiore ; a destra troverà la Cappella del Rosario. L’altare è sormontato da un dipinto ad olio su tavola di metri 3,37 x 2,20. Il dipinto reca la firma « Marcus de Pino Senensis. Anno Domini Incamat – MDLXXVI ». Marco Pino da Siena, vissuto tra il 1525 ed’ il 1587, segui l’arte del Beccafumi ,detto il Mache-rino, che si fece notare per le sue spiccate tendenze illuministiche, tanto che il Lanzi ebbe a dire: « dovria quasi dirsi il Correggici dell’Italia inferiore ». Il nostro artista, a Napoli, raccolse intorno a sè una schiera di discepoli e diede vita ad una scuola di disegno nella quale prevaleva la tendenza michelangiolesca negli aspetti e nelle forme. Nella sua attività pittorica non mancò di manifestare attitudine per l’architettura. A Napoli, sotto la sua direzione di architetto, fu costruita la chiesa con l’annesso collegio del Gesù Vecchio. Il De Rogatis ed il Sanduzzi negli scritti che si riportano a ricordi e a memorie di Bagnoli Irpino, avanzano l’ipotesi che Marco Pino da Siena per le difficoltà del trasporto della grande tavola, sia venuto di persona a Bagnoli per dipingerla. Il grande quadro, che ha sofferto molto l’ingiuria del tempo e che avrebbe bisogno di una maggiore cura per la sua conservazione, è veramente molto espressivo, sia per le figure considerate isolatamente che per l’effetto d’insieme.
Il prof. De Rosa cosi lo descrive: « La scena dipintavi è ideata in una atmosfera divina, in un nimbo di luce sopra un trono di nubi, circondata da un coro celestiale di angeli che fan cadere le rose e rosari, mentre la Vergine scende beata, tutta candore nell’espressione, in atto di presentare un fascio di rosari ai santi sottostanti a lei, ed alla mano destra è il bambino, che è un vero gioiello di nudetto, il quale tiene poggiata la mano sinistra sul ginocchio della madre e con l’altro braccio disteso tiene in mano un fascio di coroncine ». Nella parte sottostante « a sinistra, a primo piano », si vede « S. Pio V con le mani congiunte in atto di pregare. S. Antonio di Padova, con giglio, e S. Domenico con una mano in alto e nell’altra un convento. A destra S. Pier Damiani in atto di estatica ammirazione, S. Caterina da Siena quasi in estasi rapita e S. Bernardo dottore». Un recente studio condotto, con acume e diligenza, dal P. Benedetto Salierno riconosce nella prima figura a sinistra non S. Antonio, ma S. Tommaso. Il giglio che reca in mano è « il simbolo della sua angelica parità »; il libro che reca nell’altra mano è « il simbolo delle mirabili opere che ha senno ». Il Santo dottore reca «un sole in petto, perché come il sole dissipa le tenebre della notte e risplende benefico sulla terra, cosi S. Tommaso, con la sua celeste dottrina, ha dissipato e dissiperà le tenebre ed i tenebrosi sistemi degli eretici». Contrariamente al De Rosa ed al Canonico De Rogatis che avevano visto nel Santo di destra con mani giunte S. Pier Damiani, P. Benedetto Salierno riconosce, in questa figura, «S. Pietro Martire, nato a Verona nel 1206 e martorizzato dai Manichei il 5 aprile 1252 mentre si recava da Como a Milano, per esercitare le sue funzioni di inquisitore generale della fede. Questo martire infatti «è rappresentato con le mani giunte e con una spada che divide in due la testa e con un’altra che gli trafigge il petto», cosi come fu martorizzato secondo la tradizione. Inoltre nel Santo che è a fianco di Caterina da Siena riconosciuto dal De Rosa per S. Bernardo dottore, P. Benedetto Salierno invece ravvisa S. Antonino, « arcivescovo di Firenze », nel secolo XV, « uomo di governo e dottissimo che ci ha lasciati scritti teologici ed ascetici ». Tra S. Antonio e S. Pio V, aggiunge P. Bene-
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detto Salierno, tutti e due inginocchiati, v’è un cane con una fiaccola in bocca. E’ lo stemma domenicano che si riferisce ad un sogno che ebbe la madre di S. Domenico quando era incinta di lui. Ella sognò di avere nel suo seno un piccolo cane con una fiaccola in bocca e che, nato, avrebbe incendiata tutta la terra. L’effetto generale e particolare del quadro, analizza il De Rosa, è sorprendente: il contrasto della luce che l’artista ha saputo ottenere, il quale scende dall’alto ed illumina il quadro di una luce purissima, vivifica ed infonde vigore alla scena. All’effetto della luce si unisce mirabilmente la impronta della santità, che traspare da tutti i volti; tutto questo eseguito con giustezza e sicurezza di disegno, con grande vigoria, con prodigiosa varietà di tavolozza, che danno al colorito riflessi sempre nuovi, spinto come è fino agli estremi di luce e di colore. La grande energia di tocco, il pennelleggiare largo e simpatico, dolce senza intenzione di cadere nell’esagerato, la forza plastica che modella con straordinaria vigoria ogni cosa, il gioco sagace dei vari ed infiniti sbattimenti di ombre, or calde or vaporose, or sentite, ne armonizzano i contorni e la gradazione prospettica di luce e di colore, danno al quadro un’importanza grandissima, uno straordinario valore. Tutto il quadro è chiuso da una specie di cornice formata da 18 quadretti, completi in se stessi. Essi rappresentano i 15 misteri del Rosario. Il quarto quadretto a partire da sinistra di chi guarda, in basso, rappresenta lo schieramento delle formazioni navali nella battaglia di Lepanto. P. Benedetto Salierno aggiunge che altri due quadretti, a suo modo di vedere, rappresentano la nascita di S. Domenico e la predica di un padre Domenicano, probabilmente S. Tommaso, che espone la sua dottrina ai padri e ai dottori della Chiesa. Questi quadretti, più che essere dei bozzetti, sono veri e propri quadri finiti e completi nella vigoria del colore e nell’espressione dei sentimenti. Anzi si deve rilevare che in essi Marco Pino da Siena si rivela un miniaturista per l’eleganza della linea e per la ricchezza dei particolari, che non affaticano affatto lo sguardo del visitatore. Quadri e loculi, conclude il De Rosa, sono sorretti da un grandioso ed elegante portale con due colonne laterali, sostenenti il fregio e la cornice; il tutto elegantemente intagliato e dorato.
Sopra la cornice di coronamento, in una sagoma di forma ellittica, anche questa molto bellamente intagliata, è incastonato un quadro rappresentante il Padre eterno che regge tra le mani il mondo. Non poteva fare di meglio Ambrogio Salvio,
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(testo mancante) ando, nell’estate del 1576, ritornando al vecchio convento di Bagnoli Irpino, per ritemprare sue forze, pensò di ornare l’altare del Rosario la celebrazione delle glorie dell’ordine,esal(testo mancante) nel grande dipinto della Madonna del Rosario che gareggia con quello del Sasso forato che si conserva nella chiesa di S. Sabino a Roma, con quello del Guarino a Torino, con quello del Durer a Vienna, con quello di Wan Dyck che si venera a Palermo, con quello del Tintoretto a Ferrara, con quello stesso di Paolo Veronese. Ma la rievocazione della battaglia di Lepanto, in uno dei quadretti, oltre che ricordare ai cattolici la vittoria della Cristianità, doveva ricordare ai Bagnolesi in particolar modo, secondo le intenzioni di Ambrogio Salvio, il contributo che Alessandro Ronca, anch’egli bagnolese, aveva dato nella squadra comandata da Andrea Doria ; del Ronca si ammira infatti il sepolcro, a fianco della cappella, sormontato da un medaglione con la seguente epigrafe: D.O.M. – Alexander Ronca – In militari iam inde ab-adolescientia versatus An-dream Auriam, Caesarem a Neap. ac alios – Caro-li V Caesar: et Philippi II reg. Hisp. – Duces, mi-iitiae sequuntus eorumque – strenuitatem aemu-latus – et signifer – et antisignanus multa – Bello-rum – incommoda vulneraque passuss – Ubi se dotnum recepit emeritus vivens – Hoc sibi mon. p. c. Anno Domini MDCVII Aetatis suae LXXX.
Il dipinto di Marco Pino da Siena esercita un fascino particolare che scaturisce dalla trasfigurazione dell’evento storico nella magia della sua arte. Il fervore mistico, che dovette indiscutibilmente fiammeggiare da questa grande vittoria delle armi cristiane e che pervase l’anima di tutti i fedeli, prende vita dalla magia della luce e del chiaroscuro che si fa eco delle molte voci dell’anima umana. L’insieme del gruppo dalla linea morbida che si disperde in ampie e calde penombre, incise dai riflessi che concorrono a lumeggiare torme eleganti e trasfigurate rivelano un Marco Pino da Siena maestro della luce e della grazia femminile trasfigurata nel divino volto della Madonna che sorregge il Bambino in una luminosità velata e vaporosa. Il passato, tutto fervore religioso, rivive nella sua arte; anche nell’osservatore meno provvisto di cultura specifica la spiritualità del quadro richiama l’epoca remota alla quale si riporta l’opera, giacché l’espressione di fede che si rinnova e si rafforza è sempre indice dell’avvento dei superiori valori dello spirito.
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